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Parola alla scienza

L’infarto del miocardio nella donna

Perché è importante tenere monitorato il colesterolo anche dopo un infarto

Negli studi sull’infarto miocardico acuto, la popolazione femminile risulta sottorappresentata, confermando lo stereotipo della malattia come tipicamente maschile.

Esiste tuttavia una specificità di genere della malattia coronarica, che riguarda il riconoscimento dell’insorgenza dei sintomi, al percorso clinico-terapeutico di gestione della cura e i processi di adattamento e ridefinizione di sé che la malattia comporta.

Il Profilo femminile

Cerchiamo di delineare alcune specificità del “profilo femminile” della malattia. Innanzi tutto le donne, percependosi poco a rischio di contrarre una patologia cardiaca, tendono ad ignorare o a sottovalutare l’insorgenza dei sintomi, contribuendo ad incrementare il problema della scarsa tempestività di accesso alle cure sanitarie. Sono soprattutto le più giovani a ritardare le cure, anche perchè i sintomi di cui esse sono affette sembrano “atipici”, non facilmente interpretabili come sintomi di natura cardiaca (come sono invece il senso oppressione al petto, la dispnea, il dolore toracico o il formicolio alla braccia). La sintomatologia femmilie, infatti, spesso comporta: astenia, estrema spossatezza, mal di schiena, dolori mandibolari, tensioni al collo, problemi epigastrici, come nausea e vomito, forti stati d’ansia e insonnia.

Oltre a ciò, le donne hanno timore di risultare “esagerate” nel cercare un consulto medico: per timore di perdere il controllo; per non apparire deboli e bisognose e per pudore, soprattutto nei casi i cui i sintomi non sembrano conformi al modello maschile della malattia. Ma anche nel caso del tempestivo accesso alle cure, che riguarda più spesso le donne anziane, alcune pazienti riportano che gli esami medici e strumentali non hanno evidenziato le effettività criticità della malattia, con il rischio di presentare dei “falsi negativi”.

Le conseguenze

A seguito all’evento acuto, la malattia coronarica presenta periodi di instabilità e riassestamento che comportano profonde ripercussioni sulla qualità della vita. Le donne, rispetto agli uomini, mostrano spesso una maggiore vulnerabilità fisica e psicologica, sintomi più gravi e invalidanti e percorsi di cambiamento nello stile di vita più complessi. Se alcune mostrano il bisogno di essere rassicurate e sostenute nel percorso di riadattamento, altre sono restie ad accettare e a richiedere supporto. Soprattutto le donne le più giovani, tendono a minimizzare la gravità e l’esperienza negativa della malattia. Nel tentativo di riappropriarsi in modo attivo della propria vita, mettono spesso in atto di meccanismi di difesa orientati alla negazione e all’evitamento. Se questi aiutano inizialmente il mantenimento della propria organizzazione di fronte all’angoscia, la rabbia e la disperazione, se diventano esclusivi o persistenti, ostacolano l’instaurarsi di un atteggiamento collaborativo in riferimento alla cura. La considerazione dell’infarto come problema acuto sembra quindi una modalità difensiva di adattamento, in cui la compromissione dello stato di salute, la sofferenza e la traumaticità dell’evento invalidante vengono dissimulate. Le donne sono sovente in difficoltà a scegliere se mettere la cura degli altri al primo posto o veder soddisfatte le proprie esigenze, sperimentando forti sensi in colpa nel non riuscire a riappropriarsi rapidamente delle proprie responsabilità.

Se alcune donne si sforzano di mantenere il controllo sulla situazione, altre, più vicine al versante ansioso-depressivo, sperimentano un senso impotenza di fronte alle difficoltà di un evento che ha segnato uno stravolgimento radicale, con trasformazioni radicali della propria vita che non è più possibile ignorare. Emerge in questi casi il senso minaccia identitaria che l’infarto può comportare all’autostima, al senso di continuità di sé e alla percezione di autoefficacia. Esse mostrano ritiro nelle relazioni, difficoltà a condividere il proprio dolore e una generale paura a riprendere le normali attività quotidiane. Il timore di essere esposte al giudizio altrui, le porterebbe a non esprimere i loro stati d’animo per paura di un rifiuto, o, se più giovani, a ricercare esperienze competitive che forniscono loro conferme sociali. Il personale esperto (psicologi, psicoterapeuti), ma anche parenti ed amici dovrebbero offrire sostegno dato che l’isolamento e bassi livelli di supporto sociale, a seguito dell’evento critico, aumentano il rischio di recidive.

L’approccio medico

Tuttavia, non solo le donne, ma anche i professionsiti socio-sanitari possono condividere una stereotipica rappresentazione dell’infarto, in cui il modello di trattamento e di gestione della cura della popolazione femminile è ricavato per analogia da quello maschile, ben più più conosciuto e consolidato.

Possono quindi emergere difficoltà a mostrare una diversa sensibilità verso le pazienti e ad individuare indicatori clinici e percorsi riabilitativi specifici per le donne. Dal punto di vista del trattamento e della gestione della cura, infatti, le donne hanno minori probabilità di essere sottoposte ad indagini cliniche e di essere ammesse a procedure diagnostiche e terapeutiche adeguate, con conseguente riduzione delle capacità di sopravvivenza. Al fine di arginare l’effetto dello stereotipo di genere sulla qualità dei servizi erogati, si possono individuare due ordini di priorità: di ordine culturale, riguardante una maggiore sensibilizzazione del personale, rispetto alle specificità femminili, in quanto non necessariamente riconducibili per analogia alle caratteristiche maschili, e di ordine clinico, riguardante la necessità di individuare percorsi diagnostico-terapeutici specifici per le donne, anche a partire da un processo di revisione accurata dei protocolli attuali.

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Dott.ssa Chiara Foà psicologa e psicoterapeuta
chiara.foa@unipr.it

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