Per affrontare le malattie e il cambio di abitudini anche la mente è importante. Ecco un interessante approfondimento della Psicologa e Psicoterapeuta Chiara Foà.
Che ostacoli incontrano le persone nel cambiamento delle proprie abitudini alimentari?
Una diagnosi di celiachia, diabete, obesità, ipertensione o cardiopatia genera spesso, nella persona che la riceve, conseguenze importanti di ordine personale, socio-familiare e culturale, fino a comportare una diversa idea o percezione di sé. Tali situazioni cliniche, seppur diversificate, sono accomunate dal fatto di dover sostenere radicali cambiamenti degli stili di vita, tra cui quello del regime alimentare.
Cosa significa?
Ciò significa che le abitudini precedentemente acquisite dovranno essere modificate, se non addirittura rivoluzionate, nella consapevolezza che molto spesso tale regime terapeutico dovrà essere mantenuto per tutta la vita. La cronicità, la progressione della malattia e i condizionamenti imposti sulle abitudini di vita favoriscono, talvolta, l’instaurarsi di modelli comportamentali e/o emozionali disadattivi che, se non affrontati con tempestività rischiano di cronicizzarsi.
Quando l’atteggiamento verso il cambiamento alimentare può essere oppositivo?
Lo spaesamento, la rabbia, la tristezza e la difficoltà di accettare e di farsi carico della malattia, con le sue limitazioni e frustrazioni, possono, infatti, produrre un atteggiamento oppositivo all’aderenza terapeutica e al cambiamento dello stile alimentare. Tale resistenza può essere dovuta a diversi ordini di fattori: può essere una conseguenza di una risposta emotiva alla patologia o di una convinzione soggettiva che il cambiamento delle abitudini alimentari sia sostanzialmente inefficace, o “semplicemente”, ad una oggettiva difficoltà ad aderire al regime dietetico, nonostante un’esplicita volontà di farlo. Molte persone, in sostanza, oscillano fra il voler cambiare l’alimentazione ed il non riuscire a cambiare il rapporto con il cibo, sabotando, in tal modo, scostamenti sananti verso un cambiamento.
Tale resistenza comporta quindi che la persona mantenga le abitudini consolidate nel tempo e in famiglia, a cercare il cibo anche senza averne fisicamente bisogno (incorrendo in quella che viene definita fame nervosa o emotiva) oppure a concedersi, in momenti di particolare tensione e stress, degli sgarri alimentari, spesso ripiegando su alimenti “vietati” o comfort food, che assumono per la persona una valenza consolatoria e gratificante.
Il doppio significato del cibo
Il cibo, infatti, riveste un significato simbolico e relazionale che trascende il semplice valore nutrizionale e la necessità di alimentarsi. Il cibo ha una forte valenza emotiva, associandosi a intimità, piacere, affettività e convivialità, divenendo spesso un distensivo rispetto a sentimenti negativi (rabbia, ansia, tristezza, vuoto e frustrazione). La conseguenza è che l’affrontare una terapia alimentare può essere avvertita dalla persona come l’imposizione di un’emozione, non altrimenti gestibile.
Se pertanto rinunciare ad un particolare stile alimentare è percepito troppo oneroso dal punto di vista emozionale, si tenderà inconsciamente a mettere in atto veri e propri boicottaggi delle prescrizioni, che innestano, a loro volta, sentimenti disforici, tra cui senso di colpa e la vergogna.
In sostanza, nell’aderenza al cambiamento degli stili di vita intervengono diversi fattori, di ordine cognitivo, emotivo e sociale, che vanno adeguatamente valutati e affrontati in modo personalizzato, variando idiosincraticamente da caso a caso. In tutte queste diverse situazioni, rimane in ogni caso il fatto che marcate resistenze e difficoltà nell’adesione al piano alimentare hanno un impatto negativo non solo per la salute fisica, ma anche psicologica della persona.
Che cosa può fare lo psicologo in questi casi?
Nel contesto dell’alimentazione, l’obiettivo del lavoro psicologico è aumentare la consapevolezza, la motivazione, le abilità, le competenze e l’impegno delle persone nel gestire uno stile di vita corretto. Seppure gli interventi variano da caso a caso, e si realizzano modo individualizzato, in base alla patologia, all’età, e alle caratteristiche di personalità, comunemente è importante iniziare da una attenta valutazione delle necessità, dei gusti, delle abitudini acquisite in famiglia, così come dei condizionamenti socio-culturali legati al cibo, focalizzandosi soprattutto sugli aspetti psicologici e simbolici ad esso connessi, alla base della mancata aderenza al cambiamento del piano alimentare.
Cosa significa migliorare le proprie abitudini alimentari?
Il miglioramento delle proprie abitudini alimentari comporta infatti aspetti psicologici individuali (preferenze, motivazioni e aspetti emotivi e cognitivi) e socio-culturali (disponibilità di cibo, tradizioni del gruppo, reddito, varietà territoriali locali, religiose e abitudini familiari). Si tratta quindi di attivare la consapevolezza del come, del perché e di con chi si mangia, non solo di cosa e di quanto si mangia.
Cosa offre lo psicologo?
Lo psicologo offre quindi un attento ascolto al significato simbolico e alle emozioni a cui il cibo è associato, individuando anche le situazioni attivanti che guidano la persona ad assumere un comportamento alimentare dannoso per la propria salute. Lo psicologo aiuta la persona a comprendere le motivazioni e le occasioni sociali che spingono a servirsi del cibo per fronteggiare situazioni difficili, stressanti o dolorose, per mitigare un senso di vuoto interiore, per dare sollievo ad uno stato di angoscia e quindi per raggiungere una stabilità emotiva, non altrimenti raggiungibile.
La persona viene quindi aiutata a gestire al meglio le modalità del cambiamento, tenendo ben presente i bisogni sottostanti e i fattori ostacolanti al percorso, incrementando la motivazione e l’impegno. Essa viene supportata a gestire diversamente gli eventi stressanti, incoraggiata a trovare una risposta più adattiva per la regolazione delle emozioni, sostenuta a distinguere fra la fame fisica ed emotiva e a potenziare l’autocontrollo emotivo, sviluppando un piano d’azione, fatto di progressivi cambiamenti.
Concretizzare un obiettivo terapeutico
Grazie all’accresciuta consapevolezza personale, si aiuta quindi la persona a concretizzare un obiettivo terapeutico, definendone gli specifici step, sia a breve che a lungo termine, nella consapevolezza che raggiungere un’alimentazione equilibrata è un percorso complesso, difficile e molto faticoso, anche se non impossibile. Si tratta innanzitutto di sostenere la persona a convivere più serenamente con la malattia, ad acquisire una maggior coscienza di sé, dei pensieri, delle emozioni, dei valori e dei significati simbolici associati al cibo, fino ad adottare un cambiamento, senza tuttavia ridurre drasticamente la qualità di vita, ma sviluppando una diversa cultura del gusto e del saper vivere. Contrariamente a quello che il senso comune lascerebbe intendere, cambiare regime alimentare non equivale a mangiare in modo triste, anonimo e deprivante, anche se certamente richiede una più attenta conoscenza degli alimenti, dei condimenti, delle cotture, dei propri gusti e delle proprie abitudini socio-culturali, e soprattutto delle emozioni e delle associazioni inconsce legate al cibo e del conseguente piacere, anche inconsapevole, che esso offre.
Articolo scritto dalla Dott.ssa Chiara Foà
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